BARBARA SPINELLI: LA LEGALITA', LA BATTAGLIA DI OGGI, GLI STRUMENTI DI IERI, E I LUOGHI COMUNI

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INES TABUSSO
00lunedì 31 ottobre 2005 16:44

LA STAMPA
30 ottobre 2005
La strana disfatta
di Barbara Spinelli


LA legalità, se continuiamo a parlarne nei modi in cui se ne parla oggi in Italia, rischia di trasformarsi in un concetto indispensabile oltre che nobile, ma assai poco istruttivo e forse perfino distruttivo. Non è istruttiva ed è anzi distruttiva la pigra abitudine a considerare la legalità come virtù naturale della destra, e l’attrazione per l’illegalità come vizio tipico della sinistra, specie marxista.

Non è istruttiva ed è anzi distruttiva l’inclinazione che abbiamo a combattere la battaglia della legalità come se il mondo non fosse radicalmente cambiato - a seguito dell’estendersi delle migrazioni, del declino demografico europeo, della lotta contro il terrorismo, della cultura della paura che s’accompagna a tutti questi fenomeni - costringendo ciascuno di noi a ripensare da capo quel che legalità vuol dire, e quel che i responsabili delle democrazie stanno ultimamente facendo con la legalità, sia internazionale sia nazionale. Qui non s’intendono proporre soluzioni.

Più umilmente, s’invita a pensare di più per agire meglio. A forza di usar male la memoria storica e di rinviare il momento in cui la sicurezza è ripensata alla luce di un mondo che muta, c’è il pericolo di perdere in effetti una grande occasione: quella di vincere la battaglia che ci è contemporanea, per averla affrontata con gli strumenti di ieri. C’è il pericolo di edificare una linea Maginot, a difesa della democrazia, che andava bene per le sfide del passato e s’infrange davanti alle sfide dell’oggi. Lo storico Marc Bloch ha descritto magnificamente quest’errore fatale, che egli chiama crimine strategico e che vide la Francia, nel ’40, combattere una guerra affatto nuova con le armi e le astuzie del ’14-18.

Il crimine venne commesso da gente intelligente e fine (da uomini forts en thèmes, forti in cultura libresca, giornalistica), che aveva tuttavia studiato il mondo nel chiuso di uffici polverosi, senza vedere come ogni cosa fosse nel frattempo cambiata, a cominciare dalle nozioni della distanza, del tempo, del ritmo. Di qui la Strana disfatta, in cui secondo Bloch precipitò la democrazia francese. È una disfatta che minaccia anche noi, oggi, se continuiamo a parlare della legalità senza fare un uso corretto di quel che la memoria storica e la realtà insegnano veramente. La storia infatti non insegna idee generali che si immobilizzano, e che affascinano per una loro divina monotonia, per una loro impigrente immutabilità. La storia «non tradisce, non insegna la ripetizione degli eventi» - è ancora Bloch a dirlo - ma è per sua natura «scienza del cambiamento», dell’esperienza.

L’indolenza abitudinaria e pedante va bene per i tempi tranquilli, non per la memoria che urge nei tempi presenti. Vediamo innanzitutto la pigrizia della memoria storica, che è un aspetto della vocazione a ripetere gli eventi e che appare con tanta forza nelle discussioni sul caso Cofferati. È una sorta di trantran della mente, svogliato e monotono, che induce a dividere il mondo politico in una destra amante dell’ordine legale e una sinistra attratta da una sorta di giustizia extra-giuridica. Questa distinzione è storicamente inesatta, e solo per senso di colpa - e perché le elezioni son prossime - i commentatori di sinistra la fanno propria.

La distinzione fra una legalità esclusivamente formale e una legittimità extra-giuridica ha tradizioni possenti a sinistra come a destra, e questo fin dai primi dell’800, in concomitanza con la Restaurazione successiva alla Rivoluzione francese. Erano legittimisti gli avversari delle costituzioni e dei codici varati prima dalla Rivoluzione e poi nel 1814-1815 da Napoleone: codici e leggi sospettati d’appartenere al caos rivoluzionario. Un secolo dopo, la dicotomia divenne principale piattaforma della destra populista di Charles Maurras e dell’Action Française. Maurras auspica una politica naturale, conforme al giusto e vero sentire di una popolazione francese depurata da meticci e svincolata dalla «maschera grottesca» della legalità e del parlamentarismo.

Al paese legale - formalistico, anonimo - questa destra contrappone la superiore verità del paese reale. L’istinto a mettere in questione la legalità è insomma un vizio antico, costitutivo della sinistra e della destra, e come tale torna oggi a fare apparizione, con effetti sulle leggi internazionali e interne. Dentro e fuori casa l’amministrazione Bush esibisce un disprezzo di tipo legittimista verso il diritto e le convenzioni mondiali che vietano la tortura e l’umiliazione dei prigionieri di guerra, ed è un’ostilità che ha radici forti in fondamentalismi ideologico-religiosi come accade in ogni forma di legittimismo. Berlusconi e la Lega hanno reazioni simili sul piano nazionale: quando difendono l’impunità di azioni pubbliche scorrette, quando mostrano comprensione verso gli evasori, quando incitano a non tener conto di diritti che le Convenzioni europee e Onu garantiscono a immigrati, essi agiscono sulla scia di Maurras, contrapponendo il paese reale a quello legale. Su questo giornale, Luigi La Spina ha descritto l’incongruenza di un mondo nel quale si esige dalla sinistra una cultura della legalità, che la destra viola con i suoi progetti di condono fiscale e edilizio. I tic della sinistra son presenti anche a destra, e questo spiega lo strabismo di comportamenti, di sdegni, di reazioni collettive non limitate alle solite divisioni politiche (La Stampa, 27 ottobre).

Questo modo strabico e conformisticamente neghittoso di ragionare si accoppia bene col vizio d’astrazione delle discussioni italiane: vizio che impedisce di vedere come il mondo stia trasformandosi a ritmi velocissimi, proprio in materia di legalità e legittimità. Sono innumerevoli i mutamenti con cui cittadini e politici si sono negli ultimi anni confrontati: le migrazioni di popoli e il bisogno che gli europei hanno di immigrati per sopravvivere demograficamente (tra il 2010 e il 2030 avremo 20 milioni di europei occupati in meno); la crisi del diritto internazionale e delle libertà classiche come conseguenza del terrorismo globale; la cultura della paura che s’insedia nei popoli, e che i governanti quasi ovunque alimentano per poi usarla, anche nelle democrazie. Sono nuove realtà non ancora pensate nelle nazioni d’Europa, ed è questo il motivo per cui la questione della legalità tende a esser risolta con le armi e le teorie di ieri. Per molti aspetti la legalità è solo in apparenza un punto di riferimento fermo, essendo in continua metamorfosi: il che non invalida la forza della legge, ma rende difficile per chiunque una solida cultura del lecito.

La legalità viene riscritta ogni giorno, ogni ora abbiamo leggi che in teoria son fatte per accrescere la nostra sicurezza, per diminuire le nostre vere o presunte paure: leggi su accattonaggio e lavavetri, su videosorveglianza e espulsioni di stranieri sospetti o clandestini. Leggi che arbitrariamente e trasgressivamente tendono a mescolare quel che mescolabile non è: terroristi, immigrati, clandestini, mafiosi. Quando in settembre Charles Clarke, ministro dell’Interno di Blair, dice al Parlamento europeo che a seguito dell’attentato di Londra «le libertà civili dovranno esser barattate in cambio della protezione contro terroristi e crimine organizzato», annuncia stravolgimenti dell’identità d’Europa rilevanti, su cui mancano serie riflessioni e che la Costituzione europea - oggi congelata - cercava d’arginare con la sua vincolante Carta dei diritti.

Difficile dire se questi cambiamenti siano di sinistra o di destra: in ogni caso, la legalità va rimeditata tenendo conto che la sua incessante mutazione rischia alla lunga di corrodere la legittimità stessa delle leggi, il consenso attorno all’autorità di chi comanda. E il fatto che Clinton e Blair abbiano assecondato una svendita-baratto delle libertà civili non rende la svendita meno problematica. Importa la filosofia che fonda il baratto: secondo tale filosofia il diritto positivo delle democrazie non basta, occorrono rimedi che rispondano a bisogni di sicurezza non sempre conciliabili con il formalismo legale. Privilegiati in questo quadro sono rimedi tecnologicamente perfetti, che fingono finali soluzioni. Privilegiate sono iper-soluzioni, come scrive Paul Waztlawick nel suo libro Di bene in peggio. Istruzioni per un successo catastrofico (Feltrinelli 2003): questo fascino per le iper-soluzioni caratterizza il mondo occidentale, dall’America all’Europa all’Australia. Conviene dunque guardare il mondo come oggi è, provare a capirlo per fronteggiarlo.

Davanti a noi abbiamo un terrorismo e Stati che mettono in primo piano una propria idea di giustizia e una legittimità ideologico-religiosa, a scapito della legalità. Le leggi formali sono indifferenti al kamikaze, guidato da sue superiori verità, come agli attentatori che ieri hanno fatto strage a New Delhi. Sono indifferenti al presidente iraniano Ahmadinejad, che ignorando il diritto internazionale vuol cancellare uno Stato dell’Onu dalla carta geografica. Israele sarà magari uno Stato legale, ma visto che prioritaria è l’idea soggettiva della religione e della giustizia, esso diventa secondo Teheran illegittimo. Dobbiamo domandarci se cose così enormi e letali son oggi dette in tutta libertà perché l’ordine mondiale e gli Stati di diritto traversano una transizione debilitante, e trasgressiva. Perché il modificarsi della legalità crea incertezza da noi, e caos criminoso altrove. Cofferati difende a giusta ragione la legalità: in tempi di transizione essa diventa ancor più preziosa.

Ma non è chiaro se cominciare dai lavavetri abbia senso: dove andranno, quelle persone che pare ci molestino e che un tempo si chiamavano mendicanti? E dove abiteranno i clandestini o fuggitivi dei centri raccolta sgomberati? Tutto è lecito, ma non tutto edifica. Per edificare, occorre che Italia ed Europa indichino dove si trova la soglia della legalità, ma riconoscendo finalmente le nuove realtà del continente ed evitando soprattutto le menzogne: degli immigrati abbiamo bisogno, sempre più. La durezza verso i clandestini va bene, ma la mancanza di accessi semplici al mercato del lavoro accentua questa clandestinità.

I disastri di Ceuta o del centro immigrati di Schiphol o Lampedusa confermano che barriere e recinti sono iper-soluzioni tecniche, atte ad aggravare i problemi e, come in Waztlawick, sfociare in successi catastrofici. Tante cose son menzognere, che la paura ci fa dire e che molti politici ripetono: che il clandestino fa tutt’uno col criminale. Che il multiculturalismo è un’opzione che possiamo scegliere o rifiutare, quando vero è che già oggi viviamo in società multiculturali. Che gli immigrati, infine, ci tolgono lavori. Studi approfonditi lo smentiscono: da tempo, in Europa, non si riesce più a reclutare manodopera nazionale per certi impieghi (tecnologia e cure mediche in Inghilterra, Germania, Francia; lavori non specializzati come edilizia, agricoltura, pulizie, cura degli anziani in Italia, Spagna, Grecia). La paura stessa è un’iper-soluzione: una ricetta che dilata i mali, predisponendoci a strane disfatte.
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