I PROBLEMI DI LUCIA ANNUNZIATA: SE DAKI FOSSE PICCIOTTO

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INES TABUSSO
00mercoledì 30 novembre 2005 19:34
LA STAMPA
30 novembre 2005
MAFIA E TERRORISMO
Se Daki fosse picciotto
di Lucia Annunziata


Proviamo a spogliare il caso della politica. Portiamo il giudizio lontano da ogni dimensione che tocchi (via diritto internazionale) la valutazione della guerra in Iraq e dell’operato degli Americani. Mettiamo, insomma, che Mohammed Daki sia non un islamico, ma un picciotto siciliano.

L’esempio non è scelto a caso: in Italia infatti il terrorismo internazionale non ha una giurisdizione speciale e per questi reati vige la stessa disciplina che vige per i reati di alta criminalità, fra cui, appunto, la mafia. Dunque, il lavoro del picciotto Daki nella lunga e complessa catena della gerarchia mafiosa è minimo: presta piccoli servigi. A un mafioso che ha bisogno di transitare per l’Europa il picciotto fornisce il suo indirizzo postale così da permettergli di ottenere un permesso di soggiorno. A un altro in fuga da un continente presta ospitalità nella sua casa per poche notti. Sono esattamente i servigi prestati dal terrorista Daki, per sua stessa ammissione: «Certo, conoscevo Ramzi Binalshibh, ma gli ho prestato solo il mio indirizzo postale per i suoi permessi di soggiorno», dice facendo riferimento all’aiuto dato da lui, mentre viveva ad Amburgo fra il 1989 al 2002, a uno degli uomini considerati la mente dell’attentato dell’11 Settembre. L’ospitalità nella sua casa italiana era stata invece riservata a Ciise, un somalo, accolto da lui su ordine della Siria.

Come sarebbe stato giudicato per questi «aiutini» il picciotto Daki? Secondo la legge italiana la risposta è inequivocabile: sarebbe stato condannato per partecipazione ad associazione mafiosa. Un reato punibile con un minimo da tre a sei anni, e, se l’associazione è armata (come dovrebbe essere il terrorismo) fino a quindici. Come mai allora il terrorista Daki può essere giudicato innocente e la sua liberazione divenire addirittura un simbolo della vittoria dello Stato di diritto?

Il semplice giochino fra picciotto e terrorista rivela fino in fondo quando contraddittoria sia la sentenza sui tre islamici. Una contraddizione che per altro passa tutta dentro la sinistra. La legge sull’associazione per delinquere di stampo mafioso è stata ispirata e voluta dalla sinistra; si chiama infatti Pio La Torre, dal nome del deputato comunista che ne fu primo firmatario e che venne ucciso nel 1982 per questa sua battaglia. L’idea dietro la legge era quella di permettere alla lotta alla mafia di espandere al massimo la sua capacità di intervento contro ogni forma di connivenza, anche la più labile. La stessa idea che poi ha portato a ulteriori ampliamenti dell’intervento fino alla previsione giurisprudenziale del «concorso esterno», reato che ha permesso di mettere nel mirino della legge anche personaggi in apparenza lontanissimi dalla mafia - come Mannino, Musotti, Dell’Utri e altri. Nello stesso schema, Giulio Andreotti è stato accusato di partecipazione. Pur non avendo mai ospitato a casa sua un mafioso. La sinistra, che oggi applaude come a una vittoria dello Stato di diritto l’assoluzione di Daki, derubrica evidentemente il terrorismo internazionale a una minaccia alla nostra società inferiore a quella della mafia; giudica l’importanza di un aiuto dato a uno dei cervelli dell'11 settembre minore del crimine di protezione di un mafioso. Qualunque sia la ragione di questa differenza di approccio (antiamericanismo o altro) il risultato è stridente.

Così come stridente è stata infatti la conclusione del processo. Appena diventato cittadino libero Daki ha svelato la natura politica del suo impegno, ribaltando fango su quella stessa giustizia che lo aveva appena liberato. Ha sostenuto che un giudice della Repubblica Italiana, Stefano Dambruoso nella sede stessa del suo operato, cioè in un palazzo di giustizia, lo ha lasciato interrogare da agenti della Cia, consegnando la sua sovranità di giudice nelle mani di un Paese straniero.

Sono affermazioni la cui gravità non può essere sminuita. Ci sarà a questo punto chi apre un’inchiesta, almeno su queste affermazioni? O con la libertà Daki ha guadagnato anche il diritto ad accusare chi vuole?


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LA STORIA IN BREVE:

Il marocchino Mohamed Daki, i tunisini Nureddine Drissi e Kamel Hamraoui vengono arrestati nel 2003 con l’accusa di reclutare terroristi. Il 25 gennaio scorso il gup di Milano Clementina Forleo scagiona gli imputati: sono guerriglieri e non terroristi. Daki, che ha già scontato 22 mesi per ricettazione lascia il carcere di Como il 3 febbraio
BRESCIA
Il gip Spanò
Il gip bresciano Roberto Spanò, dopo aver interrogato Drissi e Hamraoui, emette contro di loro un ordine di custodia (contrapponendosi al gip Forleo) con l’accusa di aver pianificato attentati
VIA CORELLI
Il permesso
Daki, senza permesso di soggiorno, viene portato al centro di permanenza di via Corelli a Milano. La Procura però non concede il nulla osta per l’espulsione perché non è ancora concluso l’iter processuale di appello
IL VIMINALE
Chiesta l’espulsione
Si muove il Viminale che chiede l’espulsione di Daki per motivi di sicurezza. Ma la Bossi-Fini vieta l’espulsione se il soggetto è accusato di terrorismo internazionale. Il gip nega ancora l’espulsione
IN LIBERTA’
A casa in Emilia
Venerdì Daki torna in libertà e va a Reggio Emilia. Ha l’obbligo di una fissa dimora e di firmare in caserma due volte al giorno
(da Corsera, 6/2/2005)


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LA STORIA UN PO' MENO IN BREVE:


CORRIERE DELLA SERA
25 gennaio, 2005

«Gli attacchi ai civili sono sempre terrorismo»
È andata male, faremo appello Adesso dobbiamo trovare prove ancora più inoppugnabili
L' ACCUSA
Biondani Paolo

MILANO - «E' andata male». Uscendo dall' aula con la faccia scura, il procuratore aggiunto Armando Spataro non riusciva a nascondere la delusione per la sentenza che ieri ha assolto dall' accusa di terrorismo internazionale i primi imputati di Al Ansar: la più importante inchiesta italiana sul reclutamento di combattenti per la guerra in Iraq e, secondo l' accusa, anche di kamikaze. Nel pomeriggio, ritrovata la calma, Spataro accetta di parlare «solo per difendere le indagini della Digos, che lo stesso giudice ha definito encomiabili». Con una premessa. «Noi rispettiamo la sentenza. Solo che non siamo d' accordo, per cui la impugneremo». Il pm Stefano Dambruoso, che aveva condotto le indagini, contesta al giudice di non aver valutato il peso delle intercettazioni sull' invio in Iraq di terroristi suicidi. «Il punto è proprio questo: non si possono usare i kamikaze per fare la guerriglia. Mandare un giovane a farsi saltare in aria significa accettare il rischio di fare stragi indiscriminate di militari e di civili. E questo è sicuramente terrorismo». Per il giudice Forleo, però, non c' è la prova piena dell' invio di kamikaze: agli atti c' è solo una velina incontrollabile di fonti anonime del Sismi. «Giustamente il giudice ha ritenuto di non attribuire alcun valore probatorio alle fonti d' intelligence e a tutte le notizie non riscontrate. Ma né io né il pm Elio Ramondini le abbiamo mai utilizzate nella requisitoria». Avevate chiesto fino a 10 anni di prigione, nonostante il rito abbreviato: con che prove? «L' esempio più chiaro è proprio quell' intercettazione del capo-cellula, il mullah Fouad, che chiedeva ai complici di reclutare in Italia combattenti in grado di "spaccare il ferro" precisando: "Cerca quelli che stavano in Giappone". Per noi è chiaro che parlavano di kamikaze: è una frase in codice, ma è tutt' altro che ambigua. E poi non è detto che siano davvero inutilizzabili le rogatorie della polizia norvegese, cioè le confessioni dei giovani curdo-iracheni che hanno ammesso di aver ricevuto l' ordine di farsi esplodere direttamente dal mullah Krekar, che è l' emiro di Al Ansar». Il giudice applica i principi del giusto processo: testimoni e coimputati vanno controinterrogati da tutti i difensori, altrimenti le accuse non valgono. «Ma qui stiamo parlando di detenuti interrogati in Iraq: ho qualche dubbio che siano nulli anche gli interrogatori fatti in Kurdistan secondo la legge norvegese». Questa sentenza rischia di danneggiare le altre indagini sul terrorismo islamico? «Il gip Luigi Varanelli ha già condannato un coimputato anche per terrorismo internazionale, altri giudici potranno seguirlo. E per salvare le testimonianze dei kamikaze mancati, potremmo chiedere di sentirli in videoconferenza». Bisognerebbe allargare il reato di terrorismo internazionale? «No, bisogna trovare prove ancora più inoppugnabili». P. B.


I precedenti

GLI ARRESTI
Ordinando l' arresto degli stessi integralisti assolti ieri, il giudice Salvini aveva già esaminato il problema della convenzione dell' Onu, arrivando a conclusioni opposte: i combattenti di Al Ansar non sono «guerriglieri» ma «terroristi», perché «utilizzano kamikaze», accettano il rischio di «fare strage di civili» e «non sono iracheni»

LA CONDANNA
Il giudice Luigi Varanelli, nell' aprile 2004, ha condannato un coimputato poi pentito della stessa cellula, Mohammed Tahir, indagato per il reato di terrorismo internazionale: 1 anno e 11 mesi con il patteggiamento, ma senza la condizionale. Tahir è tuttora in cella






25 gennaio, 2005
«Reclutare combattenti per l' Iraq non è reato»
Milano, il giudice assolve dall' accusa di terrorismo un gruppo di islamici. «Inutilizzabili le fonti degli 007»
IL TERRORISMO ISLAMICO
LA SENTENZA
Paolo Biondani

MILANO - Non è reato reclutare mujaheddin per la guerra in Iraq. La grave accusa di terrorismo internazionale, infatti, si può applicare solo se è provata l' organizzazione di attentati «diretti a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo politico e/o religioso» e cioè «delitti contro l' umanità». Per cui gli integralisti delle cellule di Milano e Cremona, arrestati con clamore nell' aprile 2003, vanno tutti assolti, anche se è vero che hanno «arruolato volontari di matrice islamico-fondamentalista» e li hanno «inviati con documenti contraffatti in strutture di addestramento paramilitare» nel Nord dell' Iraq, gestite da quel movimento «Al Ansar» che fu pure bombardato dalle truppe Usa. Per questi motivi un giudice di Milano, Clementina Forleo, ha ordinato la scarcerazione di due imputati, Drissi Noureddine e Kamel Hamraoui, che dovranno essere riprocessati a Brescia (per competenza), e ne ha condannati altri tre, ma solo per reati minori: 3 anni ai tunisini Maher Bouyahia e Alì Toumi, per ricettazione di passaporti falsi e favoreggiamento dell' immigrazione clandestina, un anno e 10 mesi al marocchino Mohammed Daki, che procurò un documento contraffatto a un aspirante leader della guerriglia irachena. La sentenza, che ieri mattina ha chiuso il primo processo con rito abbreviato, ha fatto cadere il nuovo reato (270 bis) che fu introdotto dopo l' 11 settembre 2001 per poter punire i gruppi che organizzino dall' Italia attentati all' estero: un verdetto che, in pratica, fissa il confine giuridico tra guerriglia (lecita fino a prova contraria) e terrorismo. «Grazie alla giustizia italiana e grazie a Dio: Allah è grande», esultava Toumi uscendo dal tribunale ammanettato dai carabinieri che si ostinavano a nascondere gli altri quattro (ormai ex) accusati di terrorismo. Visibilmente irritati, i pm Armando Spataro ed Elio Ramondini hanno subito preannunciato appello. Mentre i difensori, increduli, tessevano le lodi di «un giudice che ha dimostrato grande rispetto per la libertà e la legalità» (cosi gli avvocati Antonio Nebuloni, Ilaria Crema e Gabriele Leccisi) e di «una sentenza giusta e coraggiosa, perché riconosce che non è terrorista chi va a combattere in forze irregolari contro un' occupazione militare», come aggiunge Vainer Burani, legale di quel marocchino-tedesco Daki che già nel 2001 era stato interrogato dalla polizia di Amburgo. In quanto «amico» dei dirottatori-kamikaze dell' 11 settembre e «padrone di casa» di Ramzi Binalshibh, il pianificatore dell' attacco alle Torri gemelle. Nelle 12 pagine di motivazioni, che formalmente spiegano solo le due scarcerazioni, il giudice Forleo considera provato «con margini di ragionevole certezza che le due cellule di Milano e Cremona avevano come precipuo scopo il finanziamento e il sostegno di strutture di addestramento paramilitare» nel Nord dell' Iraq. E che organizzavano dall' Italia «sia la raccolta e l' invio di denaro sia l' arruolamento di volontari, tutti stranieri e di sicura matrice islamico-fondamentalista»: il tutto «per aiutare i fratelli» mujaheddin fino al marzo 2003, cioè «in concomitanza dell' attacco Usa all' Iraq». «L' articolo 18/2 della Convenzione Onu del 1999 sul terrorismo», aggiunge però il giudice, riconosce e legittima anche «gruppi armati e movimenti diversi dalle forze istituzionali dello Stato, nella misura in cui si attengano al diritto internazionale umanitario». Per cui «le attività violente o di guerriglia poste in essere in contesti bellici non possono essere perseguite», a meno che non degenerino in azioni di «terrore indiscriminato verso la popolazione civile». D' altra parte, incriminare «gli atti di guerriglia, per quanto violenti, posti in essere nell' ambito di conflitti bellici e a prescindere dall' obiettivo, porterebbe a un' ingiustificata presa di posizione per una delle forze in campo, essendo per altro notorio che strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte» le parti, in Iraq «come in tutti i conflitti dell' era contemporanea». In tale quadro di diritto internazionale, secondo il giudice «non può ritenersi provato che le due cellule, pur gravitando in aree contrassegnate da propensioni al terrorismo, avessero obiettivi trascendenti quelli di guerriglia». Questa insufficienza di prove deriva «innanzitutto» dalla «inutilizzabilità patologica delle cosiddette fonti di intelligence»: per accusare gli imputati di aver reclutato 5 kamikaze morti in Iraq, i servizi segreti (Sismi) hanno saputo fornire solo «informative anonime non meglio precisate, prive di qualsivoglia riscontro». E «nessun atto degno di rilievo processuale» ha mai confermato «legami con il noto terrorista Al-Zarkawi». La polizia, invece, è riuscita a provare la «comune appartenenza ad Al Ansar», che è senza dubbio un' «organizzazione combattente islamica munita di una propria milizia e finanziata anche dall' Europa», ma non ad attribuirle «obiettivi terroristici»: gli scritti del mullah Krekar, che ne è il capo, «profetizzavano» solo una «guerriglia» contro «l' attacco americano in Iraq»; mentre l' unico pentito milanese, Mohammed Tahir, parla di Al Qaeda «per sentito dire» e spiega che «la violenza era oggetto di discussione», ma in una «gamma di posizioni diverse», dichiarandosi «islamico moderato». Quanto al rischio-attentati in Italia, l' unica intercettazione dell' 11 marzo 2003 sulla «grande bomba che sta arrivando», secondo il giudice in realtà si riferiva «evidentemente all' imminente attacco americano all' Iraq». Paolo Biondani

LE FRASI DELLA MOTIVAZIONE
Il finanziamento e il sostegno alle strutture paramilitari in Iraq
1 Gli imputati avevano come precipuo scopo il finanziamento e il sostegno di strutture di addestramento paramilitare nel Nord dell' Iraq. Erano organizzati sia la raccolta e l' invio di somme di denaro, sia l' arruolamento di volontari, tutti stranieri e di matrice islamico-fondamentalista Gli obiettivi dei guerriglieri e le attività di eversione
2 Non risulta che tali strutture paramilitari prevedessero la concreta programmazione di obiettivi trascendenti attività di guerriglia da innescare in Iraq o in altri prevedibili contesti bellici, e dunque incasellabili nell' ambito delle attività di tipo terroristico Nessun legame penalmente rilevante anche se la matrice è uguale
3 Non risultano legami penalmente rilevanti di tali gruppi con quelli, pure della stessa matrice ideologica, responsabili di attacchi di pacifica natura terroristica, non potendo al riguardo farsi leva sulla presunta analogia della potenziale progettualità operativa degli spostamenti di uomini e risorse «Inutilizzabilità patologica» per le informazioni dei servizi segreti 4 Tutte le attività di intelligence, le informazioni acquisite in ambito di attività internazionale devono essere qualificati come atti affetti da inutilizzabilità patologica. Sono cioè privi di qualsivoglia supporto genetico degno di rilievo processuale e non puntualmente riscontrate da atti processualmente rilevanti


30 gennaio 2005
Spataro: la Forleo ha sbagliato su fatti evidenti

La Procura di Milano ricorre contro l’assoluzione della presunta cellula islamica, sostenendo che il gup Clementina Forleo «ha omesso di valutare o ha erroneamente interpretato circostanze di fatto pacificamente risultanti dagli atti». E un altro allarme arriva da Vicenza, dove le dichiarazioni di un imputato per droga e alcune intercettazioni fanno ipotizzare la possibilità di un attentato in città con un camion bomba: le perquisizioni, però, non forniscono elementi concreti contro gli indagati che restano in libertà. Anche il ricorso firmato a Milano dal procuratore aggiunto Armando Spataro fa riferimento a intercettazioni telefoniche, a dichiarazioni raccolte in Kurdistan dalle autorità norvegesi di persone arrestate poco prima di immolarsi come kamikaze; ad altre telefonate in cui uno dei due imputati dice di esser disposto ad andare in Kurdistan per combattere. Tutti elementi che il gup Forleo avrebbe ignorato. Ci sono poi le accuse di un pentito che ha raccontato il progetto di attentato ai danni del Duomo di Cremona che, se anche non vedeva coinvolti direttamente Drissi e Hamraoui, era riconducibile alla cellula cremonese di cui i due, anche per il gup, facevano parte. Circostanze queste che con altre, per Spataro, «se correttamente valutate e interpretate» avrebbero portato alla conclusione che l'organizzazione a cui facevano capo i due (Ansar Al Islam) «era dedita alla consumazione e alla progettazione, in zone di combattimento, e anche in Europa, di attentati politicamente e ideologicamente motivati».
Azioni finalizzate «a incutere timore alla popolazione civile» e non di «guerriglia»; azioni alle quali secondo il gup non è applicabile la nozione di terrorismo, in base, afferma la Procura, «a definizioni ed elaborazioni non certo stabilizzate nella comunità giuridica internazionale». Per Spataro si tratta di crimini contro l'umanità, perché così si devono considerare «gli attentati indiscriminati che, commessi con o senza kamikaze, anche se collocabili in contesti bellici, pongono a rischio l'incolumità della popolazione inerme».


L’INDAGINE DELLA PROCURA DI MILANO E LE ROGATORIE DELLA POLIZIA NORVEGESE:

CORRIERE DELLA SERA
3 febbraio 2005
La confessione di un fondamentalista negli atti dell’inchiesta «ignorati» dal gip Forleo

Il verbale del kamikaze: dovevo uccidere 25 persone

«Ero soldato semplice di Ansar al Islam. Il capo era il Mullah Krekar. Quando si discuteva di attentati suicidi dicevano che era bello essere musulmani e uccidere dei non musulmani. Si doveva andare fieri di essere un attentatore suicida». E’ la confessione del primo kamikaze pentito, bloccato in Kurdistan prima che si facesse esplodere: «Dovevo uccidere 25 persone». Questa testimonianza, con altre, è agli atti dell’inchiesta italiana sulla rete di reclutamento: raccolta in Norvegia e trasmessa a Milano, non è stata ritenuta utilizzabile dal giudice Clementina Forleo perché equiparata a fonti anonime di intelligence. Secondo i pm milanesi, invece, prova che i militanti erano veri terroristi. A pagina 20
Biondani, Guastella Olimpio


«Militari o civili, è lo stesso L’ordine è colpire la folla»
«Ci insegnano a farne fuori il più possibile. Io avevo addosso 5 chili di esplosivo»

Il terrorismo iracheno raccontato dai kamikaze mancati. Sono gli interrogatori dei giovani curdi, fermati un attimo prima di farsi esplodere. Testimonianze agli atti dell’inchiesta italiana sulla rete di reclutamento, raccolte dalla polizia norvegese e trasmesse alla Procura di Milano. Ma per il giudice Clementina Forleo i verbali degli aspiranti martiri di Al Ansar «non sono utilizzabili», perché equiparati a fonti anonime dei servizi di intelligence. Per i pm milanesi, invece, le confessioni provano come i militanti fossero veri terroristi e non solo guerriglieri. Ecco l’interrogatorio del primo kamikaze pentito di Al Ansar: Dedar Khalid Khader, 21 anni, curdo iracheno di Arbil, bloccato nel giugno 2002 in Kurdistan.
Sei o sei stato membro di Ansar al Islam?
«Sì, ero soldato semplice».
Chi era a capo di Ansar al Islam?
«Era il Mullah Krekar».
Lo hai mai incontrato?
«Sì, più volte».
Quando sei stato arrestato?
«Era il 17 giugno 2002».
Hai avuto dei colloqui con Mullah Krekar?
«Non sono mai stato solo con il Mullah, ma eravamo in diversi quando si discuteva degli attentati suicidi. Loro dicevano che erano cosa buona e che era bello essere musulmani e uccidere dei non musulmani. Si doveva andare fieri di essere un attentatore suicida. Fu Abu Abdullah Safihi (in contatto con la rete italiana, ndr ) a chiedere se volevamo diventare attentatori suicidi mentre il Mullah Krekar parlava con noi e ci convinceva a diventarlo».
Quanto tempo passò tra il momento in cui indossasti la bomba e quello in cui arrivasti sul posto dell'attentato?
«Solo 5 minuti. Indossai il panciotto in una casa giusto accanto al posto dove avrei dovuto compiere l'attentato suicida. Lasciai la casa insieme con Umed Abdullah. Salimmo direttamente su un autobus, ci vollero meno di 2 minuti. In autobus ebbi un ripensamento e non volevo più fare l'attentato, ma non dissi nulla. Scesi dall'autobus e lì fui circondato da quelli che mi presero».
Dove avevi la bomba quando fosti arrestato?
«L'avevo addosso. Era una specie di panciotto... Gli esplosivi si trovavano in una tasca sia davanti che dietro. Avevo anche una cintura con dell'esplosivo. All'interno dei pantaloni c'era il filo di collegamento con il detonatore che avevo in tasca...Sul lato destro avevo anche un altro detonatore. Era una riserva per il caso che il primo non funzionasse».
Sai quanto esplosivo ti era stato messo addosso?
«Avevo 5 chili di esplosivo».
Quali erano gli ordini?
«Abu Abdullah Safihi e Abu Baker Tohid mi spiegarono dove avrei dovuto fare esplodere la bomba. Mi raccontarono che avrei dovuto introdurmi in una folla di persone e poi "depositare" la bomba. Era la città di Saisadiq, dove c'era il comando del Puk (importante partito curdo iracheno, ndr )».
Quante persone c'erano sul posto quando scendesti dall'autobus per depositare la bomba?
«All'incirca 25 persone».
Perché, secondo il Mullah, era bello fare un attentato suicida?
«Ci raccontò che era cosa buona uccidere dei non musulmani mediante gli attentati suicidi e che quando uno muore e porta con sé nella morte dei non musulmani Dio gli perdonerà».
Chi avresti dovuto uccidere ?
«Dei soldati del Puk (curdi, ndr )».
E se perdevano la vita dei civili, aveva importanza se uccidevi anche quelli?
«No, non aveva importanza che venissero uccisi anche dei civili».
Hai sentito dire che nei campi di Ansar al Islam ci fosse qualcuno di Al Qaida?
«Abu Abdul Ramman El Hami, che fu ucciso nel 2001 e che occupava una posizione importante ad Al Qaida, vi era stato. Abu Zuber, Abu Anar, Abdul Malik erano membri di Al Qaida ed erano al campo quando fui arrestato. Abu Yasser, che era arabo, era anche lui stato al campo, ma fu ucciso insieme a Abu Abdul Ramman».
Quindi in conclusione tu eri disposto a farti saltare in aria uccidendo molte persone dopo essere passato per un corso di addestramento ed essere stato convinto dal gruppo Ansar al Islam di cui Mullah Krekar è il capo. Era anche presente agli addestramenti di quelli che avrebbero dovuto compiere gli attentati suicidi?
«Sì, ne facevo parte. Sentii una preghiera di Mullah Krekar alla moschea di Khana Kin a Byara, in cui ci raccontava che per i fratelli che sono disposti a compiere un'azione suicida, essi devono essere pazienti e se sono disposti a farsi saltare in aria e trovano soltanto 10 persone sul posto, devono aspettare per farlo, devono farsi saltare quando ce ne sono di più, sulle 20, 30 o 60, in modo da ucciderne il più possibile».
Ti hanno somministrato alcolici o droghe il giorno che avresti dovuto farti saltare in aria?
«Penso che quel giorno ci fosse qualcosa nel cibo, perché mi sentivo spossato e volevo dormire. Anche 2-3 giorni dopo l'arresto mi sentivo stanco e spossato».
Sai se una di quelle persone che avevano fatto il «corso» ha effettuato un'azione suicida?
«Mentre ero in prigione ho sentito parlare di un'azione suicida e lui era del 1985, però non c'era al corso che ho frequentato. Il suo nome era Abdul Gani. Lui era membro di Ansar al Islam. Si fece saltare in aria a un posto di blocco. Questo avvenne nel 2003, prima dell'invasione.
Sai di altri attentatori suicidi che facessero capo ad Ansar al Islam?
«Non ricordo chi fu a farlo, ma avvenne a un punto di controllo... Rimasero uccisi due giornalisti. Sono sicuro che dietro c'era Ansar al Islam».
Paolo Biondani Guido Olimpio


LA DECISIONE DI BRESCIA:

Sarà rimpatriato uno degli islamici scagionati

MILANO - Il primo non risponde, il secondo ripete di non aver nulla a che fare con il terrorismo islamico. I tunisini Nurredine Drissi, ex bibliotecario della moschea di Cremona, arrestato in Iran dopo essere fuggito dalle basi in Kurdistan di Al Ansar bombardate dagli Usa, e il suo fiancheggiatore Kamel Hamraoui, accusati di terrorismo internazionale dalla procura di Brescia, non dichiarano nulla che possa essere utile alle indagini durante l’interrogatorio del gip bresciano Roberto Spanò. Erano stati scagionati dal gip milanese Clementina Forleo ma, con un’ordinanza che si contrappone quella della collega milanese, Spanò ha disposto che restino a San Vittore con la stessa accusa, quella di aver pianificato attentati in Iraq, Marocco e Tunisia. «Non siamo terroristi», dichiarano. E oggi uscirà dal carcere di Como il marocchino Mohammed Daki, scarcerato dal giudice Forleo. Sarà espulso dall’Italia fra qualche giorno, dopo un trasferimento nel centro di via Corelli. «Come si sentirebbe se le dicessi quel che hanno scritto di me, e cioè che sono un criminale?», ha domandato Hamraoui al gip Spanò, secondo quanto riferito dal legale dell’indagato. «Non mi metta in difficoltà», sarebbe stata la risposta del giudice. Drissi si chiede perché deve essere giudicato ancora dopo essere stato assolto e dichiara di essere andato in Kurdistan per curare i problemi alla schiena.
Giuseppe Guastella

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LE MOTIVAZIONI DEL GIUDICE FORLEO:

CORRIERE DELLA SERA
22 aprile 2005
Il giudice Forleo: «I guerriglieri? Non si deve avere terrore del terrore»

MILANO - Condannare come «terrorismo» ogni «guerriglia violenta» significherebbe «rinunciare a imprescindibili garanzie di civiltà e libertà», per cadere «in una sorta di diritto penale emergenziale del "nemico"» che etichetterebbe certi imputati (a differenza di «alcuni») come «non persone» forzando così la legge ad adeguarsi «a stati emotivi e irrazionali sul criterio del comune sentire». Un «terrore del terrore» da rifiutare, perché «il terrorismo si deve combattere» con «un giusto equilibrio fra sicurezza e libertà». Nelle 69 pagine di motivazioni depositate ieri, il giudice Clementina Forleo rilancia, con più argomenti, la necessità di distinguere anche in Iraq tra guerriglia e terrorismo, spiegando così l’assoluzione (solo da questa accusa) dei tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia, già riarrestati a Brescia. Per il marocchino Mohammed Daki, l’unico in libertà vigilata a Reggio Emilia, il giudice certifica addirittura la «totale estraneità alla cellula islamica».
Le censure politiche al verdetto avevano già spinto il gup Forleo a querelare per diffamazione anche i ministri (indagati) Calderoli e Gasparri. Ora il giudice riconosce che la Digos di Milano ha provato «con ragionevole certezza» che «la cellula milanese inviava denaro e arruolava fondamentalisti» mandati «a combattere nel nord dell’Iraq». E conferma «la comune affiliazione ad Al Ansar», cioè alla «milizia islamica armata fondata dal mullah Krekar per combattere i nemici dell’Islam». Ma sottolinea che «Krekar è ancora libero in Norvegia», e sognava «addirittura il riconoscimento dell’Onu», che invece lo ha «inserito nella black list del terrore», ma questa non è una «prova legale».
Citando atti dell’Onu e dell’Unione europea, Forleo conclude invece che si resta nella «guerriglia» quando «l’atto violento è indirizzato su obiettivi militari», mentre è terrorismo «quando colpisca indiscriminatamente militari e civili». «Anche qualora fosse provato il sacrificio programmato di martiri», aggiunge il giudice, «occorrerebbe l’ulteriore prova di un obiettivo trascendente la guerriglia». Di kamikaze contro i civili parlavano i pentiti di Al Ansar catturati in Kurdistan, ma sono stati interrogati «senza difensore» e in «situazioni carcerarie, da Guantanamo all’Iraq» paragonabili a «un inferno senza regole». Anche la presenza di truppe italiane in Iraq «non rileva», secondo Forleo, perché sono intervenute «successivamente per un’attività di peace-keeping». E per il giudice è «irrilevante» pure che i reclutatori puntassero al «fine della jihad»: «Il diritto penale non è chiamato a compiere distinzioni manichee tra il bene e il male» nè a dirimere «scontri di civiltà».
«Sono contentissimo - è il primo commento di Daki - : la sentenza supera ogni mia aspettativa».
Paolo Biondani
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